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IL CATASTO MODERNO E I GIARDINI

Il 12 gennaio 1807, dal quartier generale della remota Varsavia Napoleone, imperatore dei francesi e re d’Italia, nel quadro di un generale riordino delle finanze del Regno, avviava la formazione un nuovo catasto. Per Venezia e per il Veneto fu questo il primo catasto moderno.

I catasti precedenti si basavano, quasi sempre nei territori della Repubblica veneta, su descrizioni sommarie dei fondi e su calcoli empirici della rendita. Viceversa, un catasto di tipo moderno – il primo, classico esempio è quello realizzato da Maria Teresa d’Asburgo in Lombardia – si ispirava ad altri principi e considerava, anzitutto, la terra ormai esclusivamente quale fonte di reddito e non più come luogo dove si esercitavano poteri e prerogative di tipo feudale. Un tale catasto si realizzava dapprima con il rilievo, la misura e il disegno di tutto il territorio, secondo un rigoroso criterio geometrico particellare, e successivamente con la stima della rendita dei terreni, finalizzata al calcolo dell’imposta.

In pratica, prima si accertava, con l’impiego di raffinati sistemi di misurazione, la consistenza di tutti i terreni ed edifici – solo i cimiteri, le chiese aperte al culto e gli immobili destinati alla difesa militare erano esenti, diversamente dal passato in cui si contavano numerose esenzioni – e poi si passava a valutare, con criteri di elevato contenuto scientifico, basati sulle nuove dottrine economiche, agronomiche e statistiche, la rendita potenziale dei terreni: in base a quest’ultima si passava a riscuotere l’imposta fondiaria.

Era questa una novità assoluta: nulla poteva sfuggire al fisco (nei precedenti catasti della Repubblica, per le ragioni più varie, in qualche territorio il 40% delle terre non risultava censito), ma soprattutto il nuovo sistema fiscale premiava l’iniziativa economica e penalizzava l’inerzia in agricoltura.

Una volta stimata la resa potenziale di un fondo, infatti, il proprietario negligente e assenteista, che trascurava i propri campi, continuava a pagare le imposte sulla base di quella stima, indipendentemente dalla rendita effettiva, evidentemente inferiore. E lo stesso accadeva, viceversa, al proprietario attento ed oculato, che migliorava il fondo e vi faceva investimenti, accrescendo i  profitti: per svariati anni pagava l’imposta fondiaria su un imponibile teorico inferiore al reale.

La dominazione francese in pochi anni riuscì a misurare quasi tutti i 2098 comuni censuari del Veneto e a produrre altrettante magnifiche mappe catastali in scala 1:2000, tutte conservate nell’Archivio dei Frari. «L’opera svolta – scrisse Marino Berengo – non può non provocare la nostra ammirazione e rappresenta uno dei maggiori meriti dell’amministrazione napoleonica nel Veneto».

Crollato l’impero francese, la seconda fase del catasto, rimasto incompiuta, quella del classamento e delle stime, venne ripresa nel 1817 dagli austriaci, che la portarono a compimento tra il 1846 e il 1852. Quel catasto, iniziato da Napoleone e completato dagli Asburgo, restò in vigore in alcune province venete per oltre un secolo, fino a metà del Novecento.

Nei secoli della Repubblica il giardino era considerato un luogo di delizia, non suscettibile di produrre reddito fondiario. Quindi sottratto alle pretese del fisco.

In un catasto moderno, viceversa, il giardino diventava, proprio per il principio sopra richiamato, un comune appezzamento di terra, suscettibile di produrre un reddito, anche se tenuto come luogo di svago e non soggetto a coltivazione. In quanto tale, dunque, veniva accatastato come ogni altro terreno e sottoposto a una imposizione fiscale convenzionale, come fosse un arativo di prima classe.

Nella folta schiera dei periti agrimensori incaricati dal governo napoleonico di misurare e disegnare tutto il Veneto, molti erano di formazione (o, almeno, di apprendistato) settecentesca e avevano appreso un mestiere non esclusivamente tecnico – quale lo conosciamo e consideriamo oggi – ma che tendeva a fondere, piuttosto, disegno tecnico e disegno artistico e sollecitava, anche nel più banale dei prodotti grafici, l’inserimento di abbellimenti estetici, requisito che, in taluni casi, pareva divenire obbligato.

Ornamenti che potevano manifestarsi nell’accuratezza di molte legende, contornate da fregi elaborati con gusto e perizia non comuni, o nelle sofisticate indicazioni di orientamento delle mappe (nord della bussola, rose dei venti). Abbellimento che riscontriamo quasi sempre nella raffigurazione dei giardini: non semplici particelle colorate di verde (come prescritto dai regolamenti), ma raffigurazioni ricche di variazioni cromatiche e, spesso, con ricercati elementi grafici di complessa esecuzione, che avevano verosimilmente riscontro con la realtà del giardino disegnato.

Ciò avveniva anche a costo di palesi, ancorché non imperdonabili, violazioni del regolamento, appunto, di quelle minuziose Istruzioni per i geometri, prodotte e imposte loro dall’amministrazione finanziaria francese, che costituivano una vera camicia di forza per il perito disegnatore formato all’antica e che volesse ancora mantenere un elevato pregio estetico nel risultato del proprio lavoro. Forzatura delle regole, per esempio, mescolare il colore rosso (riservato agli edifici) al verde nella particella di un giardino, quasi a suggerire simbolicamente l’idea di una presenza floreale. Forse la risposta all’emozione provata nell’entrare in uno di quei suggestivi giardini che a centinaia costellavano città borghi e campagne del territorio veneto, dopo aver misurato i campi tutt’intorno.

Eurigio Tonetti


Biblio.: Berengo 1963; Zangheri 1980; Istruzioni 2011.

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