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Testamento di Nicolò Contarini, doge di Venezia
1630, 31 marzo. Venezia
un bifoglio, mm. 210 x 300 piegato
Notarile, Testamenti, b. 1179, test. 360
Al culmine di una carriera che lo aveva visto insediato nelle massime cariche della Repubblica, e comunque protagonista indiscusso della vita politica e culturale veneziana a partire dagli ultimi due decenni del Cinquecento, uomo di profondo sentire spirituale e di alti sentimenti religiosi, ma ferocemente antipapalino, Nicolò Contarini divenne doge in età avanzata e poté sostenere il dogado per soli quindici mesi. «Dogado breve, dogado tragico, quello del Contarini», del quale «la peste [...] costituirà lo sfondo più tremendo». Dogado del quale «rimarrà, a ricordo […] la chiesa della Salute […]. Sembrava un'ironia della sorte che la memoria del doge antipapalino, del “Contarinetto gran di pevere”, come l'avevan soprannominato i suoi avversari ecclesiastici, fosse affidata a un'opera di pietà», com'ebbe a scrivere Gaetano Cozzi. Nel testamento autografo, scritto con mano ormai tremula «il santissimo giorno di Pasca» del 1630, e consegnato nove giorni più tardi al cancelliere inferiore Francesco Erizzo, presenti come testi due segretari ducali, Contarini, scapolo e senza figli, istituisce erede universale il nipote Francesco, con la condizione che i beni stabili rimanessero sempre ai discendenti maschi della famiglia. Rammenta anche «il timor di Dio, ch'è 'l fondamento di ogni bene», e «l'amor della Patria, a cui tanto siamo tenuti». E così pure l'amore per i libri, «da’ quali conoscemo doppo Dio ogni nostro bene et ogni tranquillità d'animo in questa vita».
ET
Biblio.: Cozzi 1958; Cozzi 1983.
