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TUTELA E INSEGNAMENTO DELLE ARTI
Nello spirito “classificatorio” e “illuminato” che caratterizzò anche a Venezia la temperie culturale settecentesca, un interesse non irrilevante venne riservato alla tutela dell’immenso patrimonio artistico esistente in città e all’insegnamento delle tecniche di pittura, scultura e architettura in un’apposita Accademia. In una visione complessiva delle «ricchezze della nazione», caratteristica delle elaborazioni teoriche dell’epoca, il governo marciano manifestò piena consapevolezza di quanto il complesso dei beni d’arte veneziani – valutati, peraltro, ovviamente, in un’ottica ancora “astorica” e astratta – fosse abbondante e diffuso, e volle di conseguenza stabilirne un censimento analitico e attento.
Fu infatti disposto, come sarà illustrato dalle schede della sezione, che un «ispettore» dovesse provvedere alla rilevazione e alla tutela delle opere più preziose, al fine di evitarne danneggiamenti e dispersione. I beni mobili di proprietà dello Stato, delle Scuole grandi e piccole e degli enti religiosi furono fatti oggetto di attenzione; i detentori vennero chiamati a prendere coscienza del rilievo non solo venale di quanto possedevano. Si tentò inoltre di garantire anche per il tempo a venire il mantenimento delle opere più rilevanti, tramite interventi conservativi oculati e ben diretti.
Alle porte, però, incombeva la stagione più drammatica per il capitale artistico della città: al cessare della Repubblica in seguito agli eventi del 1797, le prime consegne di quadri, codici preziosi e altri manufatti furono stabilite, a titolo d’indennizzo, già nel trattato di pace con la Repubblica francese. Ben altro, però, sarebbe avvenuto dopo che la normativa napoleonica del 1807-1810 ebbe imposto la soppressione delle corporazioni religiose, delle Scuole grandi, delle corporazioni di mestiere e di molte parrocchie; passati nella disponibilità del Demanio conventi e monasteri, parte degli arredi artistici confluì nelle raccolte dello Stato, mentre molto altro fu messo all’asta e venne acquisito dagli interessati. Più o meno lo stesso accadde per le numerose sedi pubbliche, e ancora maggiore fu la dispersione delle raccolte private, accompagnata dalla demolizione di palazzi, chiese e altri edifici. L’Ottocento, purtroppo, vide infatti un susseguirsi di offerte e di vendite, in esito alle quali una parte cospicua dell’immenso complesso artistico accumulatosi a Venezia nei secoli iniziò la sua “diaspora” verso i musei e le collezioni di tutto il mondo.
Gli stessi archivi dell’antica Serenissima non furono esenti da simili vicissitudini: raccolti nel 1815, dopo un ventennio di traversie e di sottrazioni ad opera francese, nell’Archivio generale veneto, fondato e diretto da Iacopo Chiodo, subirono reiterate asportazioni delle serie documentarie più prestigiose da parte dei governanti austriaci, solo in parte risarcite dopo il 1866 e al concludersi del primo conflitto mondiale.
Andrea Pelizza