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COMUNITÀ E ATTIVITÀ DI FORESTIERI A VENEZIA
Nel sentire comune, Venezia è avvertita come un tipico esempio – forse proprio il più tipico – di città cosmopolita, meta prediletta, fin quasi dal suo sorgere, di stabili o provvisori insediamenti di forestieri dalle provenienze più disparate. Un riflesso evidente di tale situazione si riscontra ancor oggi nella toponomastica cittadina, che propone, tra l’altro, Riva degli Schiavoni e Calle Schiavona; Fondamenta, Ponte e Calle dei Greci; Ramo, Calle, Campo dei Tedeschi; Campiello Trevisani; Calle dei Bergamaschi e Ponte della Bergama; Calle, Sottoportico e Corte Bressana; Ponte e Campiello della Feltrina; Sottoportico e Corte della Vicenza; Calle, Ponte e Fondamenta della Verona; Corte del Volto Santo; Salizada del Fontego dei Turchi; Calle, Fondamenta e Ponte delle Turchette; nonché diverse Calli degli Albanesi. Premesso che non è operazione semplice definire con precisione chi, in epoca medievale e moderna, venisse considerato straniero, poiché «a Venezia, il concetto di straniero è rimasto lungo tutto il Medioevo un concetto estremamente fluido» (Imhaus 1997, p. 245), si può comunque ricordare l’esistenza di folte comunità non “autoctone”, inquadrabili, con una certa approssimazione, tra i sudditi dello Stato da terra o da mar della Serenissima (greci, dalmati, albanesi o italiani che fossero) o tra gli “esteri” di varia origine (italiani di altri Stati, tedeschi, armeni, turchi), senza dimenticare gli ebrei. Se, come pare, nel XIV secolo l’insieme dei patrizi – esclusivi detentori del potere politico – e dei cittadini (accolti, sulla base di determinati presupposti, nell’apposita “classe”, e ammessi a particolari benefici commerciali, o impiegati come segretari nell’alta burocrazia pubblica) non superava il dieci per cento di tutti i residenti a Venezia, intorno alla metà del secolo successivo, quando gli abitanti erano 110/120mila, i tedeschi erano stimati in circa 4.000 unità, così come gli albanesi; i greci erano forse 5.000, poco meno dei dalmati (Orlando 2016, p. 17). Gli ebrei furono ammessi in città in numero considerevole solo nel corso della guerra della Lega di Cambrai, all’inizio del sec. XVI, e dopo il 1516 furono ristretti nel Ghetto; sono stati inoltre raccolti dalle fonti circa 3.000 «nomi di Orientali giunti a Venezia tra il 1300 e il 1509» (Imhaus 1997, p. 245). I forestieri sovente si associavano in una diffusa rete di confraternite “nazionali” e di mestiere. Gli arrivi – non necessariamente irreversibili, poiché non raramente era possibile e anzi contemplato il ritorno nei luoghi d’origine – erano dettati quasi sempre da motivazioni di natura economica: non si trattava dell’insediamento di grandi masse di immigrati, ma piuttosto di gruppi di persone accomunate dalla provenienza, dal credo religioso e dalla specializzazione professionale. Elemento non trascurabile fu poi la continua richiesta di servitori di entrambi i sessi, necessari in gran numero per le opere domestiche nelle dimore patrizie. Non sempre costoro esercitavano volontariamente la propria attività: a Venezia, specialmente tra XIII e XIV secolo, furono infatti presenti in misura cospicua schiavi e schiave, di origine soprattutto caspico-caucasica o balcanica, dei quali, nonostante i reiterati divieti, si faceva in città fiorente mercato.
Andrea Pelizza