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Il Doge e la promissione ducale
Sec. XIII
Collegio, Promissioni, reg. 1, c. 4r
Una vera e propria costante, nella storia istituzionale veneziana, fu la continua ricerca di comprimere, limitare e restringere entro una cerchia ben precisa i poteri attribuiti alla carica dogale, nell’intento di impedire che il Doge, pur mantenendo il soglio a vita, potesse divenire un vero e proprio sovrano, e far sì che egli invece si definisse nel quadro di primo magistrato della Repubblica. Giudici e consigli – espressione del ceto dominante – presto lo affiancarono in ogni momento dell’azione politica, amministrativa e giudiziaria, per frenare l’insorgere di qualsiasi pretesa dinastica ed erodere progressivamente ogni velleità di autonoma preponderanza. Strumento rilevante, in questo percorso, fu la promissione ducale, che il Doge era tenuto a giurare nel momento della sua elezione; essa conteneva, minutamente riportato, l’elenco tassativo dei doveri e delle prerogative proprie della funzione. Colui che sarebbe stato definito «serenissimo principe» ne doveva conservare un esemplare presso di sé, per mantenere costante coscienza dei precisi confini entro i quali esercitare il proprio mandato di supremo rappresentante dello Stato. Alla fine del XII secolo risale la più antica promissione conservatasi, quella di Enrico Dandolo, il protagonista della IV Crociata; tre registri ascrivibili alle serie archivistiche del Collegio riportano invece le promissioni da Iacopo Tiepolo a Giovanni Gradenigo (1229-1356), di Andrea Dandolo (1343), e di Antonio Venier (1382).
Si presenta qui la promissione di Iacopo Tiepolo trascritta in un prezioso registro pergamenaceo. L’originale, con sottoscrizione autografa del doge, si conserva in Miscellanea atti diplomatici e privati, b. 2, n. 89.
AP
Biblio.: Musatti 1888; Da Mosto 1937, p. 17; Le promissioni 1986; Guida generale, p. 884, 889; Farsi storia 2015, pp. 65-66.