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Testamento autografo, trascritto a protocollo ad avvenuta pubblicazione, di Marta filia Ezzelino Gaio
1348, 10 giugno. Venezia
Registro pergamenaceo, mm. 285 x 387
Notarile, Testamenti, b. 954, not. Giacomo prete a S. Sofia, protocollo, c. 3v, test. 5
Non sappiamo a quanto potesse ammontare complessivamente tra beni mobili e immobili la sostanza di cui disponeva con il suo testamento autografo il 10 giugno del 1348 «Marta che fo de ser Ençelin Gaio da Sen Salvador, muier che fo de Iacomelo cimador da Cloça»; non sappiamo neppure se Marta possa essere considerata una delle tante vittime della peste nera che in quel volger d’anni imperversava a Venezia come del resto in tutta Europa, atteso che la formula notarile «infirmitate oppressa, sana tamen mente integroque consilio» altro non era che una costante, sostanzialmente identica a se stessa e ricorrente nella maggior parte delle manifestazioni di ultima volontà rogate dal notaio. Quel che è certo è che Marta lascia una somma più che discreta in denaro sonante destinata più o meno equamente a parenti vari, ordini religiosi («ai Remita da Muran lire tre de grossi per messe»), chiese («Sen Antuonio, Sen Çiane Lateran»), ospedali («Sen Piero e Sen Pollo, Pietà, Cha de Dio»), oltre a «una caritade ai prisonieri de sie astera de pan che sia coldo [sic!] e de do bigonçi de bon vin», e un’altra «caritade da soldi vinti de grossi ali poveri de Sen Laçaro e per messe [da celebrarsi]». Tra i beneficiari delle messe votive «de sen Grigor», per le quali dispone la somma di ben 14 soldi di grossi, la testatrice menziona espressamente il padre e la madre, un non meglio precisato Marco, due zie e una cugina («per mia ameda dona Malgarita e per mia ameda Agniexe, e per mia cusina Benvegnuda») oltre naturalmente a se stessa. In tutto lascia 21 lire e 14 soldi di grossi, somma cui bisognerà aggiungere il residuo di tutti i suoi beni, mobili e immobili, destinato immancabilmente a legati pro anima: «ancora lasso che çiò che avança de mobelle et immobele desordenado, per çiascun modo che me aspetasse, sia dado per l’anema mia». Più che evidente, allora, la preoccupazione di Marta, del resto comune a quella di ogni altro testatore di quei secoli, per il proprio destino post mortem, da preordinare in qualche modo con messe votive e disposizioni benefiche pro anima.
FR
Biblio.: Venezia e la peste 1979
