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Privilegio con cui il doge Giovanni Dolfin conferisce a Guido da Bagnolo la cittadinanza veneta
1360, 7 maggio. Venezia.
Registro pergamenaceo, legatura in assi, 435 x 320 mm
Commemoriali, reg. 6, c. 79 (80)t
In data 7 maggio 1360 il doge Giovanni Dolfin conferì a Guido da Bagnolo, quale medico del re di Cipro Pietro I e per le sue benemerenze, la cittadinanza veneta. R. Livi, nella sua biografia su Guido, trascrisse interamente questo privilegio concesso dal Doge:
Unde, cum sapiens et circumspectus vir Guido de Bagnolo de Regio, phisicus serenissimi domini Regis Cipri, dilectissimus noster, qui semper cum ejus progenitoribus se verum expressit venetum et perfectum, de nostra gratia confisus, ac se penes nostrum ducatum serviens suis meritis gratiosum, nostre magnificentie duxerit supplicandum ut ipsum ejusque filios et heredes dignaremur aliorum civium venetorum nostrorum et fidelium numero gratiosius aggregare, ut, beneficiis Veneciarum dotatus, nostrorum civium Veneciarum privilegio congauderet.
Un’ulteriore testimonianza della presenza di Guido a Venezia ci viene fornita indirettamente anche da F. Petrarca, che durante la sua permanenza a Venezia (saltuaria negli anni fra 1362 e 1368) ebbe modo di incontrarlo. Durante questi soggiorni, Petrarca strinse amicizia con un gruppo di quattro amici, tra i quali, oltre a Guido, vi erano Leonardo Dandolo, figlio del famoso doge Andrea, Tommaso Talenti, esponente di una ricca famiglia di mercanti, e Zaccaria Contarini, figlio di Nicolò, procuratore di San Marco. Con loro si intratteneva in affabili, ma in alcuni casi anche accese, conversazioni. I quattro studiosi erano seguaci ed ammiratori del filosofo e medico arabo Averroè, famoso in quell’epoca per i suoi commentari sulle opere di Aristotele, le cui idee Petrarca non approvava. La disputa condusse Petrarca a scrivere un infiammato trattato dal titolo De sui ipsius et multorum ignorantia, nella forma di una lunga lettera, con cui, tramite uno sfoggio di erudizione attinto specialmente da Cicerone e da Sant’Agostino, dimostrò l’ingiustizia della sentenza pronunciata nei suoi confronti dai quattro, che lo avevano definito «scilicet sine literis, virum bonum». Irato per l’offesa ricevuta, Petrarca non fece esplicitamente nomi nella lettera, per non concedere agli avversari l’onore di essere ricordati, ma essi furono comunque tramandati da un copista. Petrarca si era espresso anche in altre occasioni in modo scettico verso la medicina, arrivando anche al vituperio verso la professione. All’amico Giovanni Dondi dell’Orologio, docente di medicina a Padova, commentando la morte per peste di Tommaso del Garbo aveva scritto «o non valere nulla la medicina contro le malattie, o non avere egli fatto alcun conto di quella medicina che professava» (Cosmacini); all’amico Boccaccio scrisse che «non v’è strada più corta a risanare che tenersi lontano dal medico». Nella narrazione dell’epoca, il medico veniva spesso irriso con la satira e rappresentato «come di null’altro pensoso che della sontuosità delle vesti e dell’esame dell’orina o della ricerca del giorno e dell’ora adatti per il salasso». In realtà tale figurazione non rendeva piena giustizia al medico che esercitava con coscienza la professione alla metà del Trecento: «ascolta e guarda il malato, che tocca il suo polso e la sua fronte, che ispeziona i suoi escreti e il suo sangue» (Cosmacini).
TC
Biblio.: Livi 1918, pp. 61-62; Felci 1975, pp.10-11, 22, 28, 32; Cosmacini 1987, pp. 32-33.
