9 di 19 - INDIETRO - AVANTI - HOME PERCORSO MOSTRA

 

Il musicista Claudio Monteverdi, maestro di cappella in San Marco, denunciato agli Inquisitori di Stato

Post 1623

Bifolio cartaceo, 21o x 290 mm

Inquisitori di Stato, b. 643

È risaputo che a Venezia – rimasta, fino a tutto il XVIII secolo, una delle capitali della musica a livello mondiale – operarono costantemente, nei teatri, nelle chiese e in infinite altre sedi e occasioni, compositori ed esecutori di prim’ordine. Anche l’editoria musicale vi fu sempre ricchissima. Oltre a dare i natali a numerosi autori e interpreti, la città lagunare, per le grandi opportunità che offriva, attrasse validi musicisti provenienti da ogni parte d’Italia e d’Europa. Tra questi, certamente spicca il nome di Claudio Monteverdi (1567-1643), uno dei padri della musica vocale sacra e profana e tra i più celebri compositori di ogni tempo. Il grande cremonese rimase maestro di cappella a San Marco – e, pertanto, “compositore ufficiale” della Serenissima –, nonché signore della vita musicale cittadina, per ben tre decenni, dal 1613 fino alla morte.

Forse proprio perché si trovava in una posizione tanto elevata, e destava così l’invidia di molti, o magari anche per qualche sfumatura di asperità caratteriale, al «divino Claudio» (come lo battezzerà Gabriele D’Annunzio) non fu però risparmiato l’alto pericolo di venire segretamente e anonimamente denunciato ai tre Inquisitori di Stato. Quest’importante e temuto organismo, emanazione diretta del Consiglio di dieci, esisteva dal XVI secolo col compito fondamentale di «supremo tribunale in materia politica e inerente alla sicurezza dello Stato»; a esso faceva capo un’estesa rete spionistica, e vi si riferivano anche quanti, in buona fede o meno, avevano a cuore gli interessi della Repubblica.

Poco dopo il 1623, dunque, una mano sconosciuta fece pervenire agli Inquisitori una denuncia contro il maestro di cappella. Molte e gravi le accuse, la principale delle quali consisteva nell’attribuirgli – con suffragio di testimoni – di avere pubblicamente esternato un ardente desiderio che anche a Venezia venisse instaurato il dominio imperiale o spagnolo: «Ancora spera veder un’aquila dominar questa Piazza in loco de l’insegna di San Marco»; «Vedrà esser soggiogata questa serenissima Republica dal re di Spagna per salute dell’anime». Negli anni torbidi che seguivano la “congiura di Bedmar”, in un clima accesamente anti-asburgico, una simile imputazione poteva costare la vita. A fronte di ciò, l’espresso dileggio del patriziato veneziano – che l’anonimo metteva pure in bocca a Claudio: «Et io servo questi coglioni et pantaloni, che non conoscono la mia servitù, il mio valore» – passava quasi in secondo piano.

Evidentemente, le autorità marciane dovettero però rilevare l’inconsistenza degli addebiti, se almeno per un altro ventennio Monteverdi rimase incontrastatamente in sella; oppure, come forse è più probabile, attribuirono le sconsiderate uscite all’altezzoso sentire di un soggetto troppo consapevole di sé e del suo alto valore: «Andate mo’, ch’io son Claudio», gli faceva del resto dire, in un altro passaggio, il suo accusatore.

AP

Inquisitori di Stato, b. 643    Inquisitori di Stato, b. 643    Inquisitori di Stato, b. 643 

 


Biblio.: Preto 1989-1990, pp. 371-373; Glixon 1991, pp. 404-406; Mantoan 2013.

Save
Cookie preferenze dell'utente
Questo sito web utilizza i cookie Utilizziamo i cookie per personalizzare contenuti ed annunci, per fornire funzionalità dei social media e per analizzare il nostro traffico. Se rifiuti l'uso dei cookie, questo sito Web potrebbe non funzionare come previsto.
Accetta tutti
Rifiuta tutti
Per saperne di più
Preferenze
I cookie di preferenza consentono al sito web di memorizzare informazioni che ne influenzano il comportamento o l'aspetto, quali la lingua preferita o la località nella quale ti trovi.
Statistiche
Google Analytics
Acctta
Rifiuta